La strada che sale da Piancastagnaio verso Arcidosso si snoda in mezzo ad uno dei tanti boschi di faggi e castagni che circondano l’antico vulcano toscano. Il cielo promette pioggia ma decidiamo di continuare; a tratti la nebbia ci avvolge e gli stessi boschi assumono un’aria magica e un po’ misteriosa.
Superato Arcidosso prendiamo un bivio che ci indica la vetta del Monte Labro. Il silenzio intorno è completo ed un vento teso scompiglia delle grosse nubi che a momenti nascondono qua e là una vista che si allarga in progressione con il salire. Solo i colori vivaci di un fagiano ed un gregge di pecore massetane intente a brucare punteggiano i pascoli che ci circondano. Lasciata l’auto al parcheggio nei pressi del punto informativo (peraltro chiuso e deserto) ci apprestiamo a salire il monte. Se si esclude una rozza costruzione non ben identificabile ad occhio nudo, dal basso il Monte Labro appare come un cumulo di pietre e sassi perfettamente spoglio: un po’ scettici, prendiamo il sentiero che ci porterà in alto chiedendoci perché mai un posto simile possa aver ispirato un sentimento religioso ed un misticismo che pervase queste terre fino a farlo divenire – nell’ultima metà dell’800 – un caso nazionale. Proprio la fine del sentiero che passa fra una sorta di tunnel fra gli alberi, bordato dalla fioritura accesa di fiori spontanei, inizia a trasformare l’escursione in un … viaggio denso di ricordi.
La prima spianata che si incontra offre della cima una visione magica dovuta forse alla foschia che avvolge quel che ora ci appare essere una torre, un po’ castello e un po’ nuraghe, che sovrasta i ruderi di alcune costruzioni. Qualcuno ha provveduto a creare una grande spirale in pietra sulla spianata da cui osserviamo la vetta, forse nell’intento di aumentare l’ambiguità del luogo – pensiamo. Il paesaggio intorno continua ad allargarsi e il gregge che sembra seguirci fino in vetta fa da “quinta” alla vista dell’Amiata con Arcidosso e Santa Fiora. Siamo a 1193 metri e lo sguardo si perde fino al mare ed al sud della Toscana.
Il termometro delle emozioni sale ancora non appena superiamo l’arco in pietra che conduce alla cella sotterranea. La sensazione è di un luogo i cui protagonisti si siano appena allontanati.
Nel buio quasi completo, facendo attenzione a non scivolare, scendiamo il budello scavato nella roccia e raggiungiamo il cuore della torre: è un ambiente di circa 30 mq con un altare decorato da fiori freschi addossato alla roccia con scritte e il simbolo della Chiesa Giurisdavidica. L’odore di umidità è pungente come pure il profondo misticismo del luogo. Ci ritroviamo per un momento ad immaginare la presenza di Davide Lazzaretti e dei suoi seguaci in questa terra triste, povera e costellata dalle difficoltà della sua stessa storia.
L’esperienza mistico-religiosa di David Lazzaretti definito dalla stampa dell’epoca “il Profeta dell’Amiata” viene fatta risalire alle prime visioni che lui – nato ad Arcidosso il 2 novembre 1834, figlio di barrocciaio, secondogenito di sette fratelli – ebbe poco distante da questi luoghi, in uno dei suoi frequenti viaggi alla guida di un carro da trasporto. Siamo negli anni successivi all’Unità d’Italia, la vita stentata di cui da sempre gli amiatini erano i rassegnati protagonisti fece sicuramente intravedere un barlume di speranza a quei contadini che videro nelle parole di Davide innanzitutto un messaggio di vita solidale unito ad una promessa di rinnovamento religioso con richiami al francescanesimo delle origini. Padre Balducci, anche lui figlio di questa terra, parlava dell’esperienza Giurisdavidica come della più bella fiaba della povera gente dell’Amiata.
Il fervore religioso che anima Davide ottiene un successo travolgente fra le genti povere dell’Amiata tanto da fargli decidere di erigere un luogo di culto sulla vetta del Monte Labro (1872), che diviene così sede della comunità che si va formando attorno alla sua figura. Le cronache raccontano che almeno 80 famiglie si riunirono sotto la guida di Lazzaretti dando origine ad un’esperienza associativa – la “Società delle Famiglie Cristiane” – di condivisione di beni e risorse e di fratellanza umana e spirituale. Non è forzato intravedere in quelle spinte le matrici di uno spirito “socialista” ante-litteram e l’inizio di un modello di società di mutuo soccorso che diversi anni dopo iniziò a fiorire anche in Toscana. E’ sorprendente notare che fra i compiti della comunità fossero indicati l’impegno a far fronte alle necessità dei membri secondo il loro apporto e secondo i loro bisogni, l’impegno a fornire un’educazione scolastica gratuita e l’estensione del diritto di voto alle donne all’interno della comunità. Una visione quindi non solo mistica ma – per le autorità politiche e religiose del tempo – in forte odore di eresia rivoluzionaria.
L’esperienza della comunità andò avanti per alcuni anni e fruttò a Davide anche il tanto agognato incontro con l’indifferente Papa Pio IX, da cui non riuscì ad ottenere l’incoraggiamento sperato. Il tentativo di estendere l’esperienza della comunità tra i contadini di Maremma, della Sabina e del Reatino gli procurarono una serie di vicissitudini anche giudiziarie – con accuse di vagabondaggio, truffa e cospirazione politica – tanto da spingerlo a cercare di uscire dall’isolamento amiatino cercando appoggi e relazioni che lo condussero fino in Francia dove trova sostenitori e finanziamenti. Al principio del 1878 viene convocato dal Sant’Uffizio per rendere conto dei suoi discorsi sempre più infuocati verso la proprietà terriera e la gestione della fede da parte della gerarchia ecclesiastica, nel frattempo i suoi scritti sono posti all’indice.
In questo clima di profonda ostilità delle autorità civili e religiose di un’Italia post-unitaria che conosce la piaga del brigantaggio ed i primi movimenti popolari di protesta, il 18 agosto 1878 Davide Lazzaretti guida dal Monte Labro verso Arcidosso la processione che lo porterà alla morte per mano della polizia che cerca di fermarlo. Molti parlarono allora – e gli storici di oggi concordano – di un accanimento legalitario ingiustificato verso Lazzaretti che sfociò in un inutile spargimento di sangue (altri innocenti contadini morirono in quei tafferugli e parecchi furono i feriti).
Il 15 agosto di ogni anno gli ultimi seguaci rimasti si riuniscono ancora a pregare sulla cima del Monte Labbro – luogo ritenuto sacro dai giurisdavidici.